Altro che libero mercato, altro che cooperazione internazionale. Il “Liberation Day” di Trump 2.0 ha inaugurato un nuovo paradigma: la guerra commerciale non più come strumento di pressione negoziale, ma come arma di distruzione finanziaria di massa, diretta contro gli stessi ingranaggi che finora hanno sostenuto l’economia americana. I dazi annunciati – mascherati da “reciprocità” ma in realtà figli di un algoritmo pseudo-greco che farebbe impallidire persino un professore di statistica ubriaco – sono un affronto al buon senso economico.
La logica? Punire chi ha un surplus commerciale con gli Stati Uniti. Poco importa se quel surplus è frutto di decenni di specializzazione produttiva, accordi bilaterali o semplicemente domanda dei consumatori americani. Il nuovo messaggio è chiaro: se vendi più di quanto compri, ti colpiamo. È la vendetta commerciale in giacca e cravatta: “mi hai infastidito, quindi ti rovino”.
«You cannot be serious» tuonano le testate americane.
Il risultato? Un mercato azionario in caduta libera, la peggiore svendita dai tempi del Covid. Gli investitori, quelli veri, sanno bene che questa escalation non ha nulla di strategico: è puro populismo economico, un tentativo disperato di creare nemici esterni per coprire fragilità interne.
L’economia statunitense, dopata per anni da capitali stranieri attratti da Big Tech e da un dollaro forte, rischia ora di essere vittima del proprio successo.
Il mercato azionario americano è diventato il salvadanaio del mondo. Ma chi vorrebbe ancora tenerci i risparmi quando il padrone di casa si sveglia un mattino e decide dal nulla che ti odia?
Apple, regina incontrastata dei mercati, ha perso in poche settimane un valore superiore alla capitalizzazione record di Walmart. Non è solo un dato finanziario. È un campanello d’allarme sul fatto che la fiducia nel sistema USA, costruita in anni di apertura e regole stabili, si sta sgretolando.
Nel frattempo, gli Stati Uniti continuano a godere di un enorme surplus nei servizi, che finora li ha protetti dagli effetti più devastanti del protezionismo.
Ma se UE e Canada – finora partner, ora potenziali nemici – decidessero di colpire lì, nel cuore digitale e finanziario americano, il castello crollerebbe. Gli oltre 120 miliardi di surplus nei servizi ICT, i 90 miliardi di royalties, i 63 nei servizi finanziari… potrebbero evaporare in un attimo.
Chi vincerà davvero questa guerra? Di certo non le piccole economie emergenti, già stremate da un dollaro che ora traballa ma potrebbe rialzarsi con ferocia.
Paesi come il Vietnam, la Thailandia o la Colombia, con riserve di dollari in declino e sistemi bancari fragili, rischiano crisi di liquidità e default. E ironicamente, potrebbero essere spinti proprio tra le braccia di Pechino.
Complimenti, strategia perfetta: mentre Trump gioca al risiko, la Cina incassa allegramente i nuovi alleati. Bene ma non benissimo. C’è poi il vero pericolo: la riflessività. Quel meccanismo per cui, se abbastanza investitori credono che tutto andrà male, finirà davvero per andare male. Gli afflussi stranieri calano, il dollaro vacilla, le aziende tech si sgonfiano, le disuguaglianze aumentano.
Il rischio sistemico non è più solo una parola da banchieri centrali. È qui, reale, e autoalimentato.
Il problema più profondo, però, è politico. Con 22 annunci di dazi e una narrativa da “noi contro tutti”, Donald Trump ha ormai legato il proprio destino politico a una crociata che nessun alleato può sostenere, e che nessun avversario può ignorare. Ritirarsi ora lo renderebbe debole. Ma andare avanti lo rende pericoloso. Il peggio deve ancora venire, e gli unici “guardrail” rimasti sono sondaggi, inflazione e… un pizzico di buon senso. Ma chi ha più fiducia in quello? Se questa è la nuova normalità, prepariamoci a disimparare tutto ciò che sapevamo sull’economia globale. Gli anni di globalizzazione sono ufficialmente finiti. Benvenuti nell’era della vendetta commerciale.
ARTICOLI
Benvenuti nell’era del protezionismo vendicativo
Il populismo economico del presidente americano sta sgretolando la fiducia nel sistema Usa costruita in anni di aperture e regole stabili, ma che oggi, all’imposizione dei dazi, ha legato il proprio destino politico
