Nella gestione del proprio denaro, e quindi anche nelle decisioni relative al come investirlo, possono emergere inclinazioni personali o pregiudizi che nulla hanno a che fare con la logica o con la conoscenza della finanza in quanto tale. Si tratta dei cosiddetti “bias” e il loro impatto viene spesso sottovalutato. La finanza comportamentale indaga queste condotte cercando di comprendere i motivi alla base delle decisioni finanziarie assunte dagli investitori. A soffermarsi su questo tema è stata una ricerca condotta dalla società Finer e presentata per la prima volta nel corso dell’Efpa Meeting 2024, l’evento, giunto alla 15esima edizione, organizzato da Efpa Italia il 3 e il 4 ottobre a Firenze.
L’indagine, che ha coinvolto un campione rappresentativo di quasi 5.400 tra consulenti e professionisti bancari e più di 9 mila clienti, ha cercato di fare il punto circa il livello di conoscenza e applicazione dei principi della finanza comportamentale. Presentata da Nicola Ronchetti, fondatore e ceo di Finer Finance Explorer, la ricerca ha rivelato che il 66% dei professionisti conosce i principi della finanza comportamentale (una quota che sale al 79% tra quelli certificati Efpa, la principale associazione europea che attesta le competenze dei financial advisor e financial planner). Solo il 34% però li applica concretamente. Al contrario, tra i clienti il livello di conoscenza è molto basso e pari al 17%.
Gli investitori più consapevoli dei principi della finanza comportamentale sono in maggioranza uomini, anziani (boomer o silent generation), residenti al Nord, con livello di istruzione alto, un livello patrimoniale elevato e già seguiti da consulenti patrimoniali. L’analisi dei bias più diffusi ne sottolinea in particolare sei: l’avversione alle perdite – che hanno sempre emotivamente un peso maggiore nelle scelte di investimento rispetto ai guadagni – (per l’82% degli interpellati), l’effetto gregge (75%), l’inerzia o reiterazione di comportamenti (62%), l’ancoraggio alle prime informazioni ricevute (51%), l’eccesso di fiducia (44%) e l’errore di attribuzione (38%), inteso come tendenza ad attribuire agli altri le colpe e a sé i meriti. «Questi errori non sono ugualmente diffusi tra i vari cluster di analisi», ha spiegato Ronchetti. «L’avversione alle perdite è più accentuata tra la clientela con patrimoni investibili oltre i 500 mila euro, l’inerzia e l’ancoraggio tra i clienti con patrimoni tra i 100 mila e i 250 mila euro mentre l’effetto gregge e l’errore di attribuzione tra i clienti con meno di 100 mila euro».
Se si guarda invece alla divisione per genere, l’avversione alle perdite, l’eccesso di fiducia e l’errore di attribuzione caratterizzano in misura maggiore la clientela maschile mentre l’ancoraggio e l’inerzia quella femminile. Anche l’età influisce molto sulla diffusione dei bias comportamentali: l’avversione alle perdite è più frequente nella silent generation (nati dal 1925 al 1945), l’inerzia e l’ancoraggio nei boomer (dal 1946 al 1964), l’eccesso di fiducia coinvolge la generazione X (dal 1965 al 1979) e i millenials (dal 1980 al 1996), mentre l’effetto gregge e l’errore di attribuzione appartengono alla generazione Z (dal 1997 al 2012).
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Una ricerca presentata per la prima volta all’Efpa Meeting 2024, l’evento organizzato da Efpa Italia a Firenze, fa emergere quanto siano diffuse molte distorsioni illogiche