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«La consulenza che non teme il futuro è fondata sull’indipendenza di giudizio»
Di Sergio Luciano |
Pubblicato il 9 Aprile 2024
Secondo Marco Onado, economista, docente senior della Bocconi, ex commissario della Consob, un parere frutto di un’analisi non distorta da interessi di parte ha e avrà sempre un grande valore

L’unica forma di consulenza finanziaria che può guardare serenamente al proprio futuro senza temere né l’intelligenza artificiale né le stagioni volubili del marketing è – al di là delle etichette formali – quella basata sulla sostanziale indipendenza del giudizio del consulente. Parola di Marco Onado, economista, docente senior della Bocconi, già commissario della Consob e in queste vesti protagonista di un mandato – dal ’93 al ’98 – denso di eventi cruciali per il nostro mercato finanziario e per le professioni che lo animano: «Sì, ne sono convinto da sempre: l’ideale da perseguire per la professione del consulente è l’indipendenza del giudizio. Il che deve comportare che la gamma di prodotti finanziari all’interno dei quali il consulente deve indicare ai clienti le scelte migliori non deve essere limitata a quelli di un’unica casa di gestione, di un’unica banca o di un’unica rete»

Ma i giudizi viziati da poca indipendenza possono arrivare ai risparmiatori solo dai consulenti che sbagliano o anche dagli intermediari finanziari?

La risposta è necessariamente complessa. Uno dei temi che tocchiamo nel libro che ho scritto con Pietro Modiano è che l’Italia è uno dei Paesi con la più alta ricchezza finanziaria del mondo ma non sa adeguatamente valorizzarla. La scarsa dimensione del risparmio gestito è una delle manifestazioni di questa ricchezza non valorizzata. Che dipenda anche dal modo di vendere i prodotti finanziari?

Ecco: lei che dice?

Le cause di questa sottovalorizzazione sono sicuramente tante. Per quanto riguarda la distribuzione, osservo che nessuna banca – con l’eccezione di Banca Intesa attraverso Fideuram – controlla un grande operatore di risparmio gestito. E Unicredit, che era l’unica banca che aveva fatto internazionalizzazione nell’asset management molto spinta comprando addirittura Pioneer, l’ha poi venduta ad Amundi… Poi c’è la concorrenza del debito pubblico, che assorbe molta domanda di investimento. Ma se vogliamo parlare di questo, c’è un problema ancora più delicato che è la concorrenza dei prodotti bancari. Nelle banche, quando è il momento di collocare le proprie obbligazioni, molto spesso la priorità è quella, l’ordine di scuderia che viene dato alle reti è quello.

E i clienti non si insospettiscono?

Uno dei problemi del settore è che la gente non percepisce quando i consigli che le vengono dati, allo sportello o dal consulente, nascono da una pressione commerciale particolare. Se ne accorge solo quando qualcosa va male…

La sua è una visione critica e un po’ pessimistica!

Al contrario. Il mio è un messaggio positivo in un Paese con una tale ricchezza finanziaria e con situazioni di mercato sempre più complesse, un parere indipendente ha e avrà sempre un grande valore. Al riparo di qualunque intelligenza artificiale. Ma nella mia espressione – parere indipendente – le parti delicate sono sia il sostantivo che l’aggettivo: “parere” indica il frutto di un’analisi; “indipendente” indica che quel parere non dev’essere distorto da un interesse di parte…

Ma i pareri possono essere i più disparati!

Ovviamente sì, possono essere tanti quanti sono i consulenti finanziari, e quindi una rete ha bisogno di una struttura che formi questi ruoli. Chi è a contatto con i clienti non ha il tempo di studiare i mercati dalla mattina alla sera. Ogni giorno riceve indicazioni operative dalla sua rete: perciò è necessario che le riceva di qualità.

E anche attente ai rischi!

Soprattutto: tutti i tentativi di automatizzare la percezione del rischio fatti sul mercato si sono dimostrati vani e non hanno retto la prova dei fatti… E questo dimostra che occorrono valutazioni umane discrezionali… con buona pace dei computer.

Abbiamo qualcosa da imparare dall’estero?

Be’, un primo tema riguarda l’ampiezza della gamma di prodotti all’interno della quale il promotore sceglie e guida i suoi clienti. Prendiamo gli Stati Uniti: gli americani mettono 5 trilioni di dollari in fondi di mercato monetario e gli europei molto meno, in Italia quasi niente. Perché? Sono prodotti molto convenienti, con basse commissioni e alta liquidità. I nostri fondi monetari sono diversi, sono a breve e non garantiscono la stessa liquidità dei fondi di mercato monetario americani o francesi.

Ma non c’è anche un problema di caro-commissioni, che dissuade molto risparmiatori dall’avvalersi del risparmio gestito?

Questo è un altro problema delicato. Perché quel genere di fondi non prende piede in Italia? Perché l’industria, qui da noi, ha continuato a mantenere commissioni elevate non più compatibili con il livello dei tassi che abbiamo avuto fino a un paio d’anni fa e che sia pur meno marcatamente dovrebbe riproporsi. Commissioni di poco inferiori al 2% sono molto esose. E voglio dire che la professione del consulente dev’essere ben pagata, perché è impegnativa, responsabilizzante e richiede formazione permanente. Ma è anche vero che i consulenti non dovrebbero avere attese di reddito troppo alte.

Le regole e le sanzioni della consulenza finanziaria: vanno bene a suo avviso?

Sul fronte della trasparenza sono stati fatti grandi progressi anche se questo non è sempre chiaramente recepito dal risparmiatore che vive molte tutele come pressioni burocratiche. Poi c’è il livello sanzionatorio: lì la regolamentazione funziona. Anche perché il risparmiatore reagisce di più quando ha preso una sberla, e quindi denuncia. Anche se – va detto – neanche i risparmiatori hanno sempre ragione, perché a volte pretendono di non guadagnare più del possibile o di non correre alcun rischio, che è altrettanto inverosimile.

Torniamo sui costi: le gestioni passive piacciono anche perché costano poco.

Così cinquant’anni fa Vanguard ha sbancato Wall Street. In realtà il grosso rischio concreto è che molti operatori delle gestioni passive prendano di farsi pagare come se facessero gestioni attive: ma in tal caso l’offerta non è più conveniente. Anche perché oggi la tecnologia consente di usare meglio i fondi che fanno gestione passiva. D’altronde il mercato reagisce all’incremento vertiginoso delle transazioni trincerandosi sulle gestioni passive. Ma – ripeto – non per questo aumento di domanda i fondi che praticano gestioni passive possono farsi pagare come se fossero attive!

E che ruolo possono avere i consulenti finanziari in queste dinamiche?

Un ruolo importane ma delicato. Veda, i consulenti e i gestori sono fondamentalmente ottimisti e rialzisti. È nelle fasi di rialzo che guadagnano meglio: pochissimi clienti sono grati a un consulente che si limiti, nelle crisi, a proteggere il loro capitale, minimizzando le perdite, che è difficile ma non è per questo una prodezza apprezzata. La domanda di risultati è famelica… ormai tutto sembra livellato ma non lo è…

Crede all’utilità del cambio del regime commissionale prefigurato dall’Europa con la formula fee-only?

Mi sembra difficile da realizzare. Bisognerebbe rassegnarsi a non guadagnare nulla nelle fasi di discesa dei mercati, mi sembra assurdo. Una sorta di remunerazione legata all’entità dell’investimento e non solo alla performance è necessaria. E non la puoi spostare da una parte all’altra.

Quindi l’Europa sbaglia?

Ma non a essere ambiziosa. Le soluzioni possono essere diverse, l’ambizione dev’essere tanta. E la categoria dei consulenti deve guardare sempre di più all’Europa e alla sua cultura…